Loris Della Pietra
Le ragioni di un adattamento

Ormai da dodici anni nelle chiese italiane è in uso la seconda edizione italiana del Rito delle Esequie, che fa seguito alla prima edizione apparsa nel 1974 sulla base di quella typica del 1969.
In realtà, si tratta di un adattamento del testo tipico, resosi necessario – come si evince dalla presentazione della Conferenza Episcopale Italiana – in seguito all’esperienza maturata in questi quarant’anni e alle mutate situazioni di vita[1]. Se intatto rimane l’obiettivo di annunciare il vangelo della risurrezione di Cristo, certamente il contesto umano e sociale è marcato da trasformazioni vistose. L’espressione perentoria che apre le Premesse generali al Rito delle Esequie, «La celebrazione cristiana dei funerali è celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore» (RP 1), sintetizza la visione cristiana del morire e la speranza che permea ogni atto del credente nel distacco da un proprio caro. Superato il predominio di quell’immaginario tetro e tragico che doveva suscitare una certa inquietudine sulla sorte dei defunti – immaginario originatosi in età medievale, rimasto indiscusso fino al Vaticano II e che dominava la forma rituale del 1614 –, la liturgia esequiale, rinnovata attingendo in buona parte al ricco patrimonio dei primi secoli, è pervasa dalla visione pasquale del morire: nella fede del Cristo risorto, la comunità dei credenti, soprattutto nella celebrazione eucaristica, prega affinché i suoi figli passino con il Signore dalla morte alla vita nella compagnia di tutti i santi.
Questa serena professione di fede e di speranza, tuttavia, non può non tener conto dei mutati riferimenti sociali e culturali, che vedono l’esperienza del morire sempre più emarginata: non soltanto l’uomo di oggi non muore più in casa bensì in ospedale o nelle case di riposo, ma la morte stessa appare sovente oggetto di derisione o di occultamento. Il venir meno di un rapporto quotidiano e diretto con il morire a causa dell’affidamento del morente a strutture mediche e a un personale specializzato, la perdita di un vocabolario gestuale e verbale per reagire al sopravvenire della morte, l’allontanamento del corpo del defunto dalla vista e dal contatto dei vivi, soprattutto se bambini, ha portato alla rimozione della morte e del suo impatto simbolico. Inoltre l’evento stesso del morire, con ciò che lo precede e lo segue appare sovente circondato da una cortina di reticenza e di ipocrisia; da un lato la morte è studiata e conosciuta medicalmente, addirittura prevista nei tempi, e dall’altro viene a mancare quell’ars moriendi, in altri contesti praticata con cura e intensità di gesti, parole e relazioni, che offre le premesse credibili del “senso” per chi muore e per chi vive[2]. Non va sottaciuta neppure la diffusa presa di distanza dalla dimensione rituale, per cui spesso i pastori vengono contattati per celebrazioni frettolose affinché i morti in qualche modo vengano “allontanati” rapidamente, senza la presenza della comunità dei fratelli e senza i gesti e le parole consegnati dalla tradizione. Le anonime cappelle degli obitori sembrano essere preferite alle chiese parrocchiali. Tale diffuso comportamento appare ancora più evidente nei contesti urbani.
La Chiesa italiana colloca proprio in questo complesso di elementi culturali l’edizione italiana del Rito delle Esequie del 2011, allo scopo dichiarato di «proporre un cammino di fede, scandito a tappe mediante celebrazioni comunitarie, per aiutare ad affrontare nella fede e nella speranza l’ora del distacco e a riscoprire il senso cristiano del vivere e del morire» (Presentazione 2). Mantenendo fisso l’obiettivo di sempre e considerando la molteplicità delle situazioni entro le quali l’uomo di oggi vive e muore, la Chiesa che è in Italia, proponendo un adattamento al Rito, non intende rinunciare al tesoro della prassi liturgica e invita piuttosto a custodire e rilanciare la celebrazione esequiale nella sua ricca articolazione. In quest’ottica la dimensione itinerante e a tappe, dove è possibile, nell’alternanza continua tra stasi e movimento, dice ritualmente la dimensione pasquale della morte dell’uomo. Nel passare orante di luogo in luogo, e anzi, attraverso i luoghi emblematici del vivere (casa), del celebrare (chiesa) e del riposo (cimitero), la liturgia proclama la vittoria del Vivente e dei viventi sulla morte. L’indugio rituale di un’assemblea che procede in cammino, sosta, canta la sua fede e la sua speranza, attingendo soprattutto al venerabile patrimonio dei salmi e della tradizione antica, e saluta con parole accurate un fratello, non è altro che un saper “perdere tempo” con parole, gesti e canti in una situazione temporale particolarmente delicata e complessa dal versante umano, come è quella del morire, per ridire ancora la speranza cristiana che si radica nella Pasqua del Signore. Alcune innovazioni, contenute nell’attuale edizione, intendono, piuttosto, arricchire questa prassi affinché la speranza cristiana sia annunciata con maggiore franchezza in un mondo che vive con angoscia il morire e, al contempo, bisognoso di prossimità e di vicinanza.
Il sopravvenire della morte e l’approssimarsi della Chiesa

Per tale ragione, la ritualità esequiale è inaugurata dalla visita del parroco (o di un altro sacerdote o diacono o di laici preparati) alla famiglia nella casa del defunto alla notizia della morte: durante la visita, dal tenore squisitamente pastorale, ha luogo un momento di preghiera e di primo ascolto della Parola di Dio. Non dunque un semplice incontro a carattere conoscitivo o organizzativo, ma un’invocazione che fiorisce nell’ora in cui l’emozione è forte e il dolore particolarmente vivo[3]. Il tema della consolazione di Dio affiora sensibilmente dai testi biblici ed eucologici che vengono proposti. Alcune indicazioni vengono fornite circa la celebrazione della veglia funebre, che può essere guidata anche da un laico. Emblematica è la preghiera al momento di chiusura della bara, frangente che dal punto di vista umano costituisce una circostanza particolarmente delicata. Dopo l’inizio costituito dai salmi 129, 22 o 113 (all’insegna della speranza o dal contenuto tipicamente pasquale), colui che guida la preghiera tiene una sobria monizione e un’orazione che può essere introdotta dal gesto della velazione: il volto del fratello che ora viene sottratto alla vista dei superstiti viene coperto nella speranza di rivederlo per la contemplazione eterna del Volto luminoso di Dio. Le dinamiche del vedere-non vedere-rivedere costituiscono l’ossatura di un gesto particolarmente efficace che segna una benefica cesura nel rapporto terreno tra i congiunti e il defunto e apre all’attesa della comunione eterna[4].
Una traduzione migliorata
Per quanto riguarda la celebrazione esequiale vera e propria, accanto ad alcune indicazioni chiarificatrici (come a riguardo della benedizione a conclusione del rito dell’ultima raccomandazione e del commiato) e integrative (come la possibilità di accendere, alla sepoltura, un cero quale richiamo alla luce pasquale), si riscontrano nell’apparato testuale le novità più considerevoli[5]. I testi di preghiera presenti nella prima edizione sono stati rivisti quanto alla traduzione, mentre nuove proposte sono state inserite per quanto attiene alle monizioni e alle preghiere per peculiari circostanze (significative le esortazioni per introdurre il rito dell’ultima raccomandazione: per una persona anziana, per un giovane, per un sacerdote, per un diacono, per i religiosi e per una persona deceduta improvvisamente): parole per dire la speranza modellate secondo la varietà delle esperienze umane, poiché, se è vero che «la morte è comune eredità di tutti gli uomini» (prefazio dei defunti V), è altrettanto vero che i “modi” del morire sono tanti e vari[6].
La cremazione e il “non rito” dell’accoglienza delle ceneri

La parte che maggiormente attira l’attenzione è l’appendice dedicata alla cremazione, problematica tutta contemporanea. Dopo alcune precisazioni teologiche circa la cremazione, il rispetto per il corpo, il simbolismo della sepoltura e alcune indicazioni pastorali, il rituale prevede uno schema per le esequie nella liturgia della Parola prima della cremazione (caso eccezionale), un momento di preghiera nel luogo della cremazione ad esequie avvenute, un corpus di monizioni e preghiere per le esequie dopo la cremazione in presenza dell’urna e, infine, le preghiere per la deposizione dell’urna. In considerazione del fatto che i riti dell’aspersione con l’acqua e dell’incensazione sono strettamente pertinenti al corpo, vale la pena ricordare l’insistente avvertimento a omettere questi gesti in presenza delle ceneri: è il corpo, infatti, ad essere stato reso tempio dello Spirito nel Battesimo, e in quanto tale è chiamato a risorgere. A fronte di un certo indifferentismo nei confronti del corpo, di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà nella prospettiva di fede, la liturgia distingue ancora con vigore il corpo da ciò che non lo è più[7]. È il corpo rinato nelle acque battesimali, unto nello Spirito, nutrito nell’Eucaristia e che ha vissuto la carità nella testimonianza quotidiana ad essere nuovamente “toccato” dal gesto rituale a memoria della sua identità e a profezia del suo destino di gloria, come efficacemente ricordano le formule alternative dell’esortazione al rito dell’ultima raccomandazione e del commiato. Gli schemi previsti per la deposizione delle ceneri, sempre corredati di una breve proclamazione della Parola di Dio, ricorrono, soprattutto dal versante eucologico, ai temi della caducità umana che prelude alla vittoria sulla morte nella santa Gerusalemme (orazione, secondo schema) e della purificazione significata dall’azione del fuoco (monizione e orazione, terzo schema); così anche una prassi nuova, non scevra da condizionamenti socio-culturali, viene assunta sobriamente dal rito per rafforzare la fede e la speranza nel Risorto che «ci dona una vita che rifiorirà oltre la cenere» (introduzione alla professione di fede per la preghiera nel luogo della cremazione).
Il canto della speranza

Il libro liturgico, infine, riporta una raccolta di salmi e preghiere utili per i vari momenti, e alcune melodie (salmi e responsori) che indicano l’importanza che il canto ha da sempre nell’esprimere il valore “altro” del morire nel Signore. Cantare e piangere sembrano esperienze contradditorie. Eppure l’esperienza del morire e del con-morire, vale a dire i sentimenti di lacerazione e di sofferenza che la morte altrui suscita, ha sempre trovato nel canto un’espressione efficace al fine di «alleviare – umanamente – anche il lutto, sia nel momento dirompente dell’immediatezza della perdita, sia nei momenti successivi della sua elaborazione, fungendo insensibilmente da medicina carezzevole dell’anima, da discreta e non invasiva ministra del conforto»[8]. Su questa base antropologica si innesta il valore teologico del canto esequiale quale annuncio della vittoria di Cristo sulla morte e parola viva di consolazione nell’ora del dolore. È chiaro che il ruolo dell’assemblea è centrale, tanto più in un contesto di particolare coinvolgimento affettivo e di fede qual è quello di un’assemblea convocata per il saluto cristiano di un fratello: nessuna delega è consentita a “professionisti” che compiano la loro prestazione, ma piuttosto è auspicabile il ricorso a figure ministeriali che sappiano favorire la professione di fede cantata da tutta l’assemblea.
I canti in latino e in melodia gregoriana e i canti in italiano, con relative indicazioni per l’esecuzione, ripropongono la centralità dell’ispirazione biblica che fin dall’antichità accompagna l’esodo pasquale dei credenti e il valore del canto per esprimere le varie sfumature delle esequie cristiane: il dolore dell’uomo, la speranza del credente, la consolazione della fede, la gioia della risurrezione.
La proposta esplicita di melodie utili per le varie sequenze rituali della celebrazione è un invito a non scadere nel banale ed emergenziale ricorso a canti passe-partout, ma ad attingere all’ampio repertorio in lingua latina e in lingua italiana per dare voce ai molteplici sentimenti spirituali dell’uomo credere che piange e non cessa di credere nella promessa di Dio che si è realizzata in Cristo. In particolare, il canto di commiato, da eseguire e percepire come «momento culminante del rito» (RE n. 10), attende nella prassi celebrativa media un’esecuzione davvero all’altezza della sua funzione e in grado di accompagnare il defunto nel passaggio dall’assemblea terrena a quella celeste. Forse, a giustificazione di una mancata recezione del repertorio proposto dal Rito delle esequie va considerata sia la difficoltà di esecuzione di alcuni brani per assemblee composite e occasionali quali sono quelle che si formano mediamente in occasione dei funerali, sia la diversità di esperienze liturgico-musicali del territorio italiano[9].
Conclusione. La liturgia del morire cristiano come profezia

Al di là delle “novità”, la nuova edizione del Rito delle Esequie approntata per le Chiese che vivono in Italia ripropone con forza le risorse simboliche di cui l’intreccio rituale dispone al termine del cammino della vita umana. Quando le parole si fanno rare e l’enigma, la ribellione e il pianto sembrano offuscare la serenità, la liturgia si accosta con delicatezza, ma anche con tutta la gamma dei suoi gesti, parole, silenzi, canti, movimenti. L’indicibile si fa dicibile nel simbolo rituale. I mezzi di comunicazione offrono sempre più immagini e riprese di riti funebri, soprattutto in circostanze particolari, come nel caso di funerali di stato o delle esequie di personaggi famosi del mondo della politica o dello spettacolo. Ciò che accade in quei contesti non di rado si estende anche in contesti minori: spesso la liturgia è trasformata in show, si sprecano gli applausi, i flash delle macchine fotografiche e gli immancabili discorsi di circostanza. L’afasia di fronte alla morte sembra trovare una via d’uscita nel suo contrario, o nella spettacolarizzazione o nell’esibizione delle emozioni: in realtà la morte e il suo mistero rimangono sempre al di là del palcoscenico. La liturgia può rivelarsi alternativa affidabile alla morte-spettacolo nella misura in cui, attraverso il ricco e molteplice tesoro di cui è portatrice, celebra la Vita attraversando il morire dell’uomo e non semplicemente e freddamente “guardandolo” dal di fuori. L’annuncio pasquale, allora, non è più soltanto creduto o detto, ma è celebrato dentro l’esperienza della morte dell’uomo attraverso le straordinarie potenzialità del rito cristiano. Per questo motivo il libro intende risvegliare la competenza rituale delle nostre assemblee, la differenziazione ministeriale e una pratica celebrativa raffinata che sappia utilizzare testi di preghiera e gesti con sapienza e maestria, per far gustare, anche «in hora mortis nostrae», i cieli nuovi e la terra nuova che ci attendono (2 Pt 3, 13) in comunione con l’evento pasquale di Cristo che risplende nella carne dell’uomo che muore.
NOTE
[1] Cfr. A. Lameri, La nuova edizione italiana del Rito delle esequie. Motivazioni e caratteristiche, «Rivista liturgica» 99/1 (2012), pp. 18-43.
[2] Cfr. A. Grillo, Esperienza della morte e simboli rituali cristiani: l’iniziazione e l’euthanasìa sono ancora possibili?, ivi, pp. 65-77.
[3] Cfr. G. Cavagnoli, Richieste della famiglia e proposte della Chiesa. Punti fermi per una pastorale dei funerali, «Rivista liturgica» 99/1 (2012), pp. 86-105.
[4] Il gesto della velazione ha ricevuto un’eco particolare nelle esequie degli ultimi Pontefici.
[5] Cfr. P. Sorci, Il Rito delle esequie. La rinnovata traduzione dei testi eucologici, «Rivista liturgica» 99/1 (2012), pp. 71-85.
[6] Cfr. M. Barba, L’eucologia del rito delle esequie, «Rivista Liturgica» 93/6 (2006), pp. 881-894; P. Sartor, La presa di parola nelle esequie. Situazione, opportunità, indicazioni, ivi, pp. 895-903.
[7] Opportunamente, a questo proposito, l’organo della Congregazione per il Culto Divino «Notitiae» 13 (1977), p. 45, esprime questa connessione tra corpo e rito facendo leva sulla verità del segno: «Non sembra opportuno celebrare sulle ceneri i riti il cui scopo è di venerare il corpo del defunto. Non si tratta di condannare la cremazione, ma piuttosto di conservare la verità del segno dell’azione liturgica». Sul tema della non ritualizzazione della cremazione cfr. G. Boselli, Il Rito delle esequie: confessione della fede e umanizzazione della morte, Rivista liturgica» 99/1 (2012), pp. 44-70.
[8] Cfr. D. Sabaino, Celebrazione della Pasqua, ministero del conforto. Canto e musica nei riti delle esequie cristiane, ivi, pp. 164-161, qui p. 166.
[9] Cfr. E. Massimi, Cantare nelle esequie, «Rivista di pastorale liturgica» 342/5 (2020) pp. 36-40.